Il ragazzino non aveva mai avuto un cane. Aveva un maiale, sette galline, undici conigli e due vacche.
– Il cane è il miglior amico dell’uomo – disse una mattina alla madre.
Lei si girò dal lavello di pietra e lui continuò. – Hai visto Rin-Tin-Tin e Lassie, no? Loro salvano i bambini.
La madre riprese a strofinare la pentola. – Guardi troppa televisione. E meno male che non vuoi un cavallo. C’è anche Furia, no?
Solo il suo vicino di casa, Nino Bue, aveva un cane nero che teneva alla catena. Certo, non era come i cani della tivù, aveva il pelo impolverato e puzzava come una carogna. Al ragazzino però piaceva lo stesso, sembrava un lupo della prateria, ma nero.
Siamo arrivati in piazza con la macchina e mio padre e mia madre sono saliti dagli zii. Io sono rimasto in strada con i miei cugini: Vilma è una bambina bella, Pietro ha dei problemi, così dicono.
È arrivato un piccoletto di città: denti dritti, scarpe lucide, culo grosso, faccia da sbruffone. Ha iniziato a spingere Pietro e a fare eeeh per imitarlo.
– Sei un vigliacco! – ha gridato Vilma.
Mi sono fatto avanti e l’ho preso per il collo e ho stretto fino a quando si è inginocchiato a terra.
Sono tornato da Vilma, mi ha guardato ammirata. Poi ho sentito un colpo forte in testa, mi si sono piegate le gambe e sono caduto lungo disteso.
Franco e Ilario mi hanno chiamato dalla terrazza mentre aspettavo il pulmino della scuola. Dovevano farmi vedere una cosa.
Sul tavolo c’erano due tazze color arancione della Ovomaltina con i loro nomi. C’era scritto proprio Franco e Ilario. Io non credevo che la fabbrica dell’Ovomaltina sapesse chi erano i miei cugini di Via Al Lago Puos d’Alpago Belluno.
Quando sono andati in bagno a lavarsi la faccia ho grattato con l’unghia per vedere se la scritta l’avevano fatta loro con il pennarello nero.
Mio fratello e Nicola stavano dentro la Fiat 128 gialla a fumare. Io sono arrivato in bici e mi hanno fatto cenno di avvicinarmi. Ho infilato la testa nell’abitacolo. Avevano un piccolo registratore. Nicola ha premuto play e ho sentito gridolini, risate e fiatoni. Oh, oh, ah.
- Chi sono? - Ho chiesto.
- Io e tua cugina Silvana - ha risposto Nicola.
Mi fratello ha iniziato a ridere come se fossero in sette a fargli il solletico. Silvana era uguale a Katiuscia dei fotoromanzi. Talmente bella che se la sera m’immaginavo d’averla vicino non riuscivo più a dormire. E i due vermi schifosi ridevano buttando indietro la testa e dandosi di gomito.
– Ehi cazzone, ma perché scrivi?
– Perché a volte sono ispirato.
– Sei che?
– Sono ispirato, sento dentro questa cosa che deve uscire. Alle volte mi devo alzare la notte.
– Non raccontare balle dai, siamo tra amici. Puoi anche dire la verità, tanto ti paghiamo uguale!
– La verità. Vuoi saperla tutta? Alle volte non mi piace il mondo. Non mi piace per niente e allora la rabbia e lo sdegno, insomma m’incazzo e scrivo.
– Ma va là cazzone. Non vorrai darla a bere a me, vero?
– Sai una cosa? Non mi va di stare qui a dire a te perché scrivo.
– Sì che ti va, eccome. Siete tutti uguali voi scrittori. Vi piace che qualcuno vi chieda qualcosa su quello che scrivete. Tu per esempio, quando mai qualcuno ti ha chiesto un parere? E poi ti piace dire la tua e chiacchierare, dai che ti piace.
Bukowski mi ha guardato con i suoi occhi da cane gonfi di dolore e alcol. Poi si è appeso al volante con entrambe le mani per accomodarsi meglio sul sedile sgangherato della Peugeot familiare e ha riso con i denti sporgenti e cavallini. Mi aveva appena chiesto: Ti piace la ciccia? Ah ha ah. Che ha dovuto raschiare via qualcosa dalla gola e tirarla su con forza fino ad averla in bocca. È stato un attimo e io ho avuto paura: dove sputa adesso? Eravamo in macchina e non c’era nessuno che potesse tirarmi fuori di lì. Il pazzo con le guance gonfie ha abbassato il finestrino, sporto la testa, si è voltato indietro e ha sputato. La macchina ha deviato oltre la mezzeria e poi è tornata precipitosamente verso la riga gialla sul ciglio destro e finalmente si è assestata al centro della carreggiata. Bukowski mi ha guardato e ha riso di nuovo.
Ho pensato che doveva essere un operaio del Comune. Aveva una mazza in mano e stava piantando un picchetto di ferro in un angolo della piazza. Solo uno del Comune poteva fare una cosa del genere.
La piazza del paese era stata asfaltata da pochi anni. Era scura e abbastanza in piano e attorno c’erano solo le case a due piani e i muretti bassi di cemento armato ancora senza rete di recinzione. Una volta all’anno arrivavano le giostre a catene con gli autoscontri, lo zucchero filato e un camioncino con sopra un complesso: batteria, fisarmonica, basso elettrico, chitarra, sax grande e sax piccolo. Il complesso suonava il liscio e i papà, le mamme, i nonni, gli zii ballavano e ridevano con le guance rosse e le labbra unte. E sudavano. Il sudore delle ascelle faceva diventare trasparenti le camicie bianche degli uomini, mentre i vestiti sbracciati delle donne si macchiavano di un tono più cupo: il colore rosso del tessuto diventava marrone, mentre il verde andava al nero. C’era qualcosa di strano sotto le ascelle dei grandi e poi la musica li cambiava e diventavano sorridenti e parlavano e parlavano e non si capiva niente, allora bisognava andargli vicino e lasciare che ti gridassero nelle orecchie. Sapevano di vino, salsicce e pollo arrosto.
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– Che cosa sta facendo?
– Angio… mmm, buone.
– Ma quante pizzette s’è infilato in bocca?
– Attro.
– Quattro? Ma come si permette!
– Vevo fame.
– Per favore, se ne vada, prima che arrivi qualcuno.
– Non me ne vado, no.
– Senta, di là c’è la premiazione, e con il rinfresco abbiamo già avuto un sacco di problemi.
– Tu hai problemi? Ma senti un po’.
– Io non capisco chi è lei e nemmeno cosa vuole, ma deve uscire di qui. Immediatamente.