Bukowski mi ha guardato con i suoi occhi da cane gonfi di dolore e alcol. Poi si è appeso al volante con entrambe le mani per accomodarsi meglio sul sedile sgangherato della Peugeot familiare e ha riso con i denti sporgenti e cavallini. Mi aveva appena chiesto: Ti piace la ciccia? Ah ha ah. Che ha dovuto raschiare via qualcosa dalla gola e tirarla su con forza fino ad averla in bocca. È stato un attimo e io ho avuto paura: dove sputa adesso? Eravamo in macchina e non c’era nessuno che potesse tirarmi fuori di lì. Il pazzo con le guance gonfie ha abbassato il finestrino, sporto la testa, si è voltato indietro e ha sputato. La macchina ha deviato oltre la mezzeria e poi è tornata precipitosamente verso la riga gialla sul ciglio destro e finalmente si è assestata al centro della carreggiata. Bukowski mi ha guardato e ha riso di nuovo.
– Mi hanno fatto bere l’amaro, è per quello che mi sono ubriacato ieri sera. Bastardi. Quando ti trovi fuori con Pino e Ezio la balla è sicura. Non esco più domenica sera. Hai mai usato il rullo? – mi ha chiesto.
– No – ho risposto.
– Sai che cos’è la pennellessa?
– Un pennello grande?
– Va be’, quando arriviamo ti spiego tutto. Fai bene a non voler andare in fabbrica. Io non ci resisterei. Come si fa a stare venti, trent’anni nello stesso posto? Timbrare il cartellino tutte le mattine alla stessa ora… Noi si gira, si vede gente, strade, femmine, schèi, ciccia: ti piace la ciccia, no? Ah ah ah.
Bukoswki ha raschiato di nuovo, ha abbassato il finestrino e ha scatarrato fuori.
Se pensavo di stare con Bukowski mi sembrava meglio. Io non avevo mai visto una sua foto ma doveva avere la faccia di Toni Pitura, doveva sputare e ridere e bestemmiare e bere come lui. Se ero con Bukowski in Storie di ordinaria follia andava bene, meglio di apprendista imbianchino assunto in nero da Toni Pitura.
Bukowski ha abbassato un’altra volta il finestrino e ha sputato e io ho sentito l’aria fredda e le goccioline arrivarmi sulla faccia. Mi è venuto il voltastomaco. Poi ho guardato il parabrezza, aveva iniziato a piovere, non era la sua saliva.
– Piovesse merda! – ha gridato Bukowski avviando il tergicristallo.
Dovevo deglutire di continuo per non vomitare. Forse perché avevamo lasciato la strada in lieve salita che costeggiava il Piave e ci stavamo inerpicando lungo una costa tutta a curve scavata nella roccia. Mi dicevo di guardare avanti, ma sempre mi veniva di buttare l’occhio alle scarpate e ai burroni alla mia destra, alla sabbia del Piave e all’acqua. E anche di stare attento a Bukowski.
– No – ha urlato, e da come l’ha detto ho pensato che voltandomi avrei avuto di fronte il muso di un camion un attimo prima dello scontro frontale, e non avrei avuto nemmeno il tempo di rivedere tutta la vita scorrermi davanti agli occhi. Invece la strada era libera. Vuota. Noi eravamo al nostro posto, forse un po’ troppo centro strada.
– Bastarda. Schifosa. Troia! – ha urlato Bukowski aggrappato al volante con il naso appiccicato al parabrezza. – Sfortuna. Sapevo che andava così. Il gatto nero… ho cercato di metterlo sotto stamattina, ma il bastardo m’è scappato. Avrei dovuto cambiare strada!
È venuto verso di me. Mi sono rannicchiato contro la portiera e ho stretto le ginocchia il più possibile. Bukowski era concentrato sulla strada e non capivo perché mi stesse così appiccicato.
– La sfortuna. Oggi ho la sfortuna – ripeteva e con una mano ha cominciato a palpare il portachiavi che pendeva da sotto lo sterzo. Ho visto il cornetto rosso, il ferro di cavallo cromato e altre cose che dondolavano. Sono tornato alla strada e alla pioggia sottile.
– Se la fortuna ti molla sei morto – ha detto Bukowski e si è sollevato dal sedile, ha scrollato il cavallo delle braghe, e poi si è dato una specie di strizzata leggera alle palle.
È ritornato al suo posto e ha abbassato il finestrino. Non ha sputato, ma si è sporto in fuori e ha cominciato a passare la mano aperta sul parabrezza per pulirlo. Ha chiuso il finestrino e con la mano bagnata si è tirato i capelli indietro. Poi ha bestemmiato.
– Sono sempre stato sfortunato, vedi?
Ho osservato la spazzola immobile del tergicristallo al lato guida.
– Boia merda! Ma perché non si è rotto il tergicristallo dalla tua parte? Eh? Me lo spieghi? È meglio che torniamo a casa, oggi va a finire male, me lo sento.
Poi ha cominciato a piovere più forte e Bukowski si è spostato dalla mia parte per guardare la strada. Sapeva di qualcosa: un misto di menta, alcol e detersivo.
Ho pensato che non saremmo arrivati vivi a Cortina. Non con il pazzo alla guida e il tergicristallo rotto. Anche tornare indietro non mi sembrava una soluzione: eravamo in strada da un’ora buona e forse Cortina non era tanto lontana.
– La sfortuna è quella dopo il cinquanta per cento. Sulle cose tipo testa o croce, o la spazzola… vedi? Sono due. Perché si è rotta la mia? Poteva rompersi quella tua e mi sbattevo i coglioni, si arrivava lo stesso. Nossignore. Dopo il cinquanta per cento è sfortuna, è stato il gatto, per forza. Perché esistono i gatti neri?
Non ascoltavo più quello che diceva. La pioggia era scemata e Bukowski era tornato stabilmente sul suo sedile. Ogni tanto abbassava il finestrino per pulire il parabrezza e bestemmiare. Aveva la manica della camicia bagnata fino al gomito.
Siamo arrivati in cima e la strada è ritornata pianeggiante e abbiamo incontrato paesi, camion, corriere e auto.
– Ho perso tempo per via del tergicristallo altrimenti a quest’ora saremmo già arrivati. Manca poco. Hai mai fatto lo spatolato veneziano, eh?
– No – ho risposto.
– Mi guardi? Ah ah ah!
Non sapevo cosa dire, se ridere o che.
– Sei mai stato a Cortina?
– No.
– La perla delle dolomiti del cazzo. Se quel bastardo di mio padre mi lasciava un tabià quassù, sì che ero sistemato, e invece niente. Merda. E sfortuna. Guarda là. – Ha indicato Bukowski buttandosi dalla mia parte e facendo sbandare leggermente la macchina verso il ciglio.
Ho visto un trampolino. In mezzo al verde e agli alberi. Aveva i cerchi olimpici ed era altissimo: roba da vertigini. Ne avevo sentito parlare. Come della diga del Vajont. Come del Tiziano. Come di Buzzati. Ma non sapevo niente, a parte olimpiadi, duemila morti, rosso Tiziano, Il deserto dei tartari. Guardavo quella mezza salsiccia di cemento armato messa in piedi in mezzo al verde e cercavo di vederne la bellezza, l’importanza. Bukowski, al mio fianco, parlava di non so che, a proposito del ponteggio esterno dell’albergo. Avevo appena letto Storie di ordinaria follia: caldo, palme, alcol, scommesse; scopare, bere, dormire, lavorare. Stare bene. Stare male. C’era qualcosa di giusto in quello che avevo letto, qualcosa di importante che capivo senza sforzarmi.
Poi siamo arrivati a Cortina, passando sotto un ponte e Bukowski ha sorpassato in curva e io mi sono tenuto stretto alla maniglia.
Aveva smesso di piovere.
In paese le case erano bianche, con il legno scuro dei balconi e delle terrazze. Era come se li avessero dipinti con l’olio esausto dei motori. Noi facevamo così sul legno delle stalle. Le case avevano tutte la stessa forma, un rettangolo con un gran tetto di lamiera, solo che erano grandi: non avevano due o quattro finestre per piano, ne avevano dieci, dodici e poi terrazze con i gerani rossi e grassi. Uno, due, tre, quattro piani. Poi ho capito che erano alberghi fatti come case.
Eravamo incolonnati e andavamo a singhiozzo. Il voltastomaco stava diventando insopportabile. All’improvviso Bukowski è venuto tutto dalla mia parte, poi ha sterzato di colpo e siamo entrati in uno spiazzo ghiaioso. Ha frenato ed è uscito dalla macchina. Un tale vestito di bianco che stava sul ponteggio dell’albergo, ci ha guardato e ha scosso la testa. Ha caricato la spatola con una specie di polenta bianca e ha ripreso a spalmarla sul muro. Bukowski si è tirato su i pantaloni, con una mano davanti e una dietro, ha sputato sporgendosi in avanti e poi è scomparso. Quando ho sentito che apriva il bagagliaio dell’auto sono sceso.
Mi sentivo molto stanco, ero in piedi ormai da tre ore e non avevo ancora iniziato il mio primo giorno da imbianchino. Chissà com’era grande la pennellessa.
Un racconto di Antonio G. Bortoluzzi - ZONADIDISAGIO
“La perla delle Dolomiti” - Flashfiction