Valturcana, Alpago (BL)
Antonio G. Bortoluzzi 1965, Alpago (Belluno)
Antonio Giacomo Bortoluzzi è nato in Alpago, Belluno, dove tuttora vive. Finalista per due volte (2008 e 2010) al premio Italo Calvino, nel 2010 ha pubblicato Cronache dalla valle, nel 2013 Vita e morte della montagna, nel 2015 Paesi alti, con cui ha vinto il premio Gambrinus-Giuseppe Mazzotti nella sezione Montagna, cultura e civiltà ed è stato finalista al premio della Montagna Cortina d’Ampezzo e al premio letterario del Cai Leggimontagna; i tre romanzi, pubblicati da Edizioni Biblioteca dell’Immagine, sono raccolti nell’antologia dal titolo Montagna madre, trilogia del Novecento (2022). Con Marsilio Editori ha pubblicato nel 2019 il romanzo Come si fanno le cose, da cui è stata tratta l’omonima commedia teatrale e nel 2023 Il saldatore del Vajont, con cui ha vinto il Premio Coop Alleanza 3.0 della Giuria dei lettori del Premio Latisana per il Nordest 2024. È membro accademico del Gruppo italiano scrittori di montagna (Gism) e suoi articoli sono pubblicati su riviste nazionali e sulle pagine culturali dei quotidiani del Nordest.
“Sono nato nel 1965 in un piccolo borgo in Valturcana nella conca dell’Alpago in provincia di Belluno. Poche case, molte stalle e sei famiglie.
Prati ripidi, boschi, bestie, vecchi, donne e ragazzini. Una strada bianca tutta in salita che portava ad altri abitati altrettanto piccoli e senza la tabella con il nome. Nel borgo non c’era nulla: né un prato abbastanza in piano per fare una partita, né una bottega o una chiesetta. Tantomeno un telefono. C’erano un lampione, un portone di legno pieno di puntine dove mettevano gli annunci mortuari e un capitello di San Fermo con una spessa grata di metallo.”
"Mi ricordo quando ho pensato per la prima volta che fosse importante scrivere storie. Era il 1991, avevo ventisei anni e da poco era morto mio nonno.
Eravamo sempre stati insieme, tutti i giorni sui prati, in stalla, in casa, in cortile, perfino all’osteria; ogni giorno a lavorare, a ridere, a litigare; io a ribellarmi e a offendere, lui a gridare e rincorrermi senza acciuffarmi, quindi a perdonarmi, quando il buio e il fresco della sera calavano sul pugno di case dove abitavamo in Valturcana. Siamo sempre stati insieme fino all’ultima notte, la più difficile, quando la vita l’ha abbandonato e lui ha lasciato me. Poi un giorno sono stato all’ufficio anagrafe e l’impiegata, che forse sapeva del mio interesse per i libri, mi ha mostrato un grosso volume rilegato e me ne ha indicati altri disposti sul grande tavolo da lavoro dell’ufficio:
“Sono i registri dell’anagrafe dall’Unità d’Italia” e poi ha aggiunto: “Se mi dici il nome e la data di nascita di un tuo antenato, lo troviamo di sicuro”.
Mi è venuto d’istinto dire Bortoluzzi Marcello Ottorino, 21 aprile 1911, mio nonno. E l’impiegata ha controllato i dorsi dei grandi volumi andando a ritroso nel Novecento, poi ne ha estratto uno e ha sfogliato con delicatezza le pagine ambrate. “Eccolo”, ha detto. È venuta da me con il registro ben aperto, come fosse un messale, qualcosa di sacro. Sulla grande pagina ingiallita e vergata d’inchiostro di colori diversi c’erano proprio il nome e la data di nascita di mio nonno, poi la data del suo matrimonio e la data della sua morte, l’ultimo giorno in cui eravamo stati insieme.
E ho avvertito una specie di amarezza, sì, sorridevo, ringraziavo però c’era qualcosa che non andava. Dopo, a casa, ho capito che non era solo il rinnovato dolore dell’assenza, era anche un vago senso d’ingiustizia: come può la lunga vita di una persona essere racchiusa in tre date dentro un registro?
Com’era possibile? E i giorni allo sfalcio sui prati? E le vacche da portare in paese? E quella strana minestra che mi cucinava e che aveva imparato a fare da emigrante in Svizzera con il dado vegetale, concentrato di pomodoro, cannella, chiodi di garofano e un pugno di tagliatelle? E le discussioni accese sul “perché” dovevamo aver cura dei nostri prati, della casa, della stalla, delle bestie?
E così, dopo le lunghe giornate al lavoro, dopo le osterie, gli amici e perfino dopo l’amore rimaneva uno spazio che potevo riempire scrivendo. Ho imparato che ricordare non è sapere, ma portare vicino al cuore."