Nel centenario della nascita di Mario Rigoni Stern, che si celebra il primo novembre di quest’anno, tante sono le iniziative, le commemorazioni, i ricordi. L'affetto. Da lettore, la cui prima lingua è stata la parlata veneta, da persona che ha chiacchierato con i reduci della Prima e della Seconda guerra, che vive e ha sempre vissuto in montagna e che questo luogo prova a raccontare, desidero sottolineare tre aspetti, che chiamerei rivoluzioni, nell’opera e soprattutto nella figura di Mario Rigoni Stern.
Perché credo non dobbiamo essere solo adulatori o imitatori del grande scrittore dell’Altipiano dei Sette Comuni, ma provare a essere interpreti del suo esempio.
La prima rivoluzione avviene in Russia
E Mario non è antifascista per appartenenza politica o culturale: è nato nel 1921, è perciò un ragazzo cresciuto dentro il regime e l’orizzonte fascista, che occupava ogni spazio dell’organizzazione statale, produttiva, culturale dell’Italia, fino alla periferia contadina del Regno, fino in montagna. Diventa grande nel mito dell’eroismo degli alpini e si candida a 17 anni per diventare soldato partecipando a un bando per alpinista-rocciatore che lo porta ad Aosta: è il 1938 e da quel momento, che vede l’Europa affacciarsi alla Seconda guerra mondiale, trascinata dalle mire espansionistiche della Germania nazista, Mario Rigoni Stern sarà militare per molti anni fino a raggiungere il grado di sergente maggiore. E quindi le guerre in Francia, Grecia-Albania e Russia: è nell’immensa steppa sovietica che fa esperienza, soffre la perdita dei compagni, vede lo sgretolarsi di certe idealità e comprende la distanza abissale tra la vaneggiante predicazione del regime e la realtà di una guerra d'aggressione che porterà morte, distruzione, sconfitta, prigionia, umiliazione. Rigoni Stern ritorna ad Asiago minato nel corpo e nello spirito, prostrato, sfinito. Lascia la carriera militare e cerca di vivere, di ripartire nel piccolo paese di montagna per rifarsi una vita come si è sempre fatto: una casa, un lavoro, una famiglia. E intanto nasce alla scrittura. Nel 1953 Einaudi pubblica Il sergente nella neve, è l'esordio breve e potente di un romanzo che diventa un classico e si scosta dalla memorialistica di guerra per diventare letteratura, cioè voce universale, omerica che racchiude la vita e la morte di migliaia di uomini e donne nel caldaio della Seconda guerra mondiale. Ecco la prima questione rivoluzionaria: il terrore di un soldato.
“Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò le sue settantadue bombarde.” Il Sergente nella neve.
Il giovane soldato cresciuto nella fascistissima Italia che deve essere valoroso, coraggioso, perfino spietato nello “spezzare le reni al nemico” dà voce alla propria esperienza di vita militare restituendo quel sentimento autentico e popolare di chi ha combattuto e patito la guerra dal basso, dalla trincea, dall'assurdo organizzato della macelleria nazi-fascista. La guerra dell’Italia è stata d'aggressione e ammettere di aver sbagliato nel “credere obbedire combattere” non è poco. In questo senso il vissuto di Rigoni Stern è simile a quello di molti italiani: essere stati preda di una propaganda senza nessun anticorpo critico, senza una coscienza politica antagonista, eppure, nell’esperienza dei fatti, del giorno dopo giorno, maturare un sentimento antitotalitario e pacifista.
E un soldato che ammette il terrore è un soldato che comincia a guarire le ferite e può tornare tra i civili con un dono da portare.
La seconda rivoluzione è nel bosco
Quanto può essere difficile scrivere qualcosa di significativo, anzi di “non inutile”, come ha detto Primo Levi attribuendo questo merito ai suoi sodali Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli, dopo la forza dirompente del Sergente nella neve? L’uomo dell’altipiano, risanato nel corpo e nello spirito, ha ancora qualcosa da dire, da scrivere, e lo fa con una certa educata timidezza, quella di una persona che si riaffaccia al mondo delle lettere e chiede permesso, anche se è uno scrittore già consegnato alla storia della letteratura. In una decina d’anni dal romanzo d’esordio, compaiono solo alcuni suoi racconti su riviste e poi, nel 1962, la raccolta Il bosco degli urogalli sempre per Einaudi. Ci sono racconti di guerra, emigrazione, vita paesana ma si affaccia un nuovo mondo: la natura. Negli anni ‘60 il Club di Roma ragiona sui limiti dello sviluppo del pianeta Terra, si comincia a parlare di certe cose. Anche il quarantenne dell’altipiano, lo scrittore della guerra ha un'altra esperienza da narrare, è addirittura più fondativa di quella vissuta sulle rive del Don o nel campo di prigionia tedesco per 20 mesi perché non ha aderito alla Repubblica di Salò. Questa esperienza è la natura: l'elemento in cui è nato e ha vissuto, perfino quando era in guerra: alberi, pascoli, animali, insetti, montagne, acqua, vento, neve. E ha saputo ascoltare e riconoscere questo mondo che, a ben guardare, era sempre stato intorno a lui. Non si è lasciato avviluppare dal mito della modernità e dell’industrializzazione selvaggia, ha proseguito per la strada ritrovata nel bosco dietro casa, che l’ha portato a riconoscere se stesso come uomo tra gli uomini e a raccontare la natura. Ed è una rivoluzione nel senso di ritornare al principio, all’inizio per provare a dire da lì, con umiltà e semplicità.
“Io coltivo l’orto e qualche volta quando vedo le aiuole con il letame ben sotto, la terra ben spianata, provo la stessa soddisfazione di quando ho finito un buon racconto. Allora dico anche questo: una catasta di legna ben fatta, ben allineata, ben in squadra, che non cade è bella”. Ritratti, M. R. Stern, di C. Mazzacurati e M. Paolini, 1999.
Ma se Rigoni Stern fosse solo il cantore del mondo bucolico, della spensieratezza montana, dei boschi, dei pascoli, delle caprette bastava Heidi, e non tanto il romanzo ottocentesco di Johanna Spyri, ma il cartone animato giapponese trasmesso in tivù alla fine degli anni ’70, che ha portato molte persone a immaginare una montagna e una natura da attraversare fischiettando sulle note della canzone interpretata da Elisabetta Viviani.
Quindi la rivoluzione non è la semplice ammirazione incantata della natura, ma la riscoperta di ciò che Rigoni Stern possedeva: l’appartenenza a una cultura contadina e comunitaria che vede l’uomo al lavoro in simbiosi con la natura, in vista del buon vivere e anche della bellezza delle cose fatte bene.
La terza rivoluzione: nascere e morire sull’altipiano
Quest'ultima non è propriamente una rivoluzione, ma può mostrate una direzione, anche ai giovani, di ogni latitudine e periferia del mondo e della montagna. Rigoni Stern, il reduce, l'impiegato del catasto, il grande scrittore è nato e morto ad Asiago. Ha lasciato l'altipiano solo perché costretto dalla guerra, da qualche impegno privato o pubblico. È possibile dire oggi a un ragazzo o a una ragazza che vivono in un paesino di montagna, che potrebbero fare grandi cose vivendo lontano dalle metropoli, dai salotti, dalle reti che contano, dagli studi di registrazione, dalle segreterie di partito, dalle fondazioni, dagli influencer? E magari arrivarci da vecchi in quei luoghi della cultura, dell’applauso, del consenso, comparirvi perché premiati da una vita dedicata a un lavoro, a una passione, a un’etica civile fatta di gentilezza e fermezza? E ricevere i premi letterari, essere nel catalogo di una storica casa editrice, e quindi, oltre alla laurea honoris causa in Scienze forestali e ambientali all'università di Padova, la nomina a Cavaliere di Gran Croce, la laurea honoris causa in Scienze politiche all’università di Genova, e ricevere la commenda di accademico di Francia per la cultura e l'arte? Si può dire a un ragazzo o una ragazza che il riconoscimento può avvenire dopo, alla fine, quando non serve più sgomitare, gareggiare, essere il più bravo, il più venduto? E sempre abitando dove si è nati, tra la propria gente?
“Sino al capoluogo di provincia non volle entrare nello scompartimento di prima (classe) perché si vergognava; lo trattenne un certo pudore. Gli parve di sedere tra gente superiore a cui non credeva d’appartenere per rango e condizione sociale. C’erano un avvocato, un mercane di formaggio, il sindaco e il segretario, l’impresario edile e un sindacalista. No, proprio non si sentiva di sedere tra loro, e stava lì, silenzioso, tra studenti assonnati che ripassavano la lezione e operai taciturni con la cassettina della colazione sulle ginocchia.” Esame di concorso, Il bosco degli urogalli.
Non si è appresa la lezione di vita e scrittura di Rigoni Stern indossando una camicia a quadri, lasciandosi crescere la barba, oppure raccontando di pernici bianche e galli forcelli, di larici e betulle, nemmeno se si dice di parlare con gli alberi. Credo si colga la sua vita maestra quando si è testimoni e insieme traduttori dell’esistenza, del grande e complesso stare al mondo. E questo può accadere in ogni luogo geografico, in ogni battaglia di valore, in ogni desiderio di rinascita e di fondazione individuale e collettiva: la scuola, la politica, la comunità, la famiglia, la scienza, la cultura. L’insegnamento di Rigoni Stern si può cogliere, non solo in una passeggiata per boschi incantati, ma per esempio nell’impegno a risanare una periferia degradata di città, com’era periferico e devastato l’altopiano di Asiago dopo la Prima guerra mondiale, quel luogo che lo vide bambino tra boschi rasi al suolo, colline divelte da milioni di buche, camminamenti, filo spinato, trincee, macerie di case e strade, con cadaveri e bombe e armi sparse ovunque. Pensare che l’eredità di Rigoni Stern sia un estetismo che ci pone come tanti piccoli ego su bei fondali paesaggistici è, credo, sbagliato e offensivo.
Rigoni Stern ci mostra l’essere in ginocchio e rialzarsi, perdere la speranza e non lasciarsi annichilire, avere molto e accontentarsi di poco, sapere tante cose ma essere sempre incantanti da quanto si può ancora conoscere. E questo sapere non è un piedistallo su cui essere elevati, ma una responsabilità che impone di mettere il proprio valore al servizio degli altri. Se sei sergente maggiore in Russa devi portare i tuoi uomini a ovest, in patria, “a baita”. Questo è essere uomini e donne di valore nel segno tracciato dalla vita maestra di Mario Rigoni Stern.
L'articolo dal titolo "Una vita maestra segnata da tre rivoluzioni. La lezione che impariamo da Rigoni Stern" è stato pubblicato il 12.06.21 sulla pagina Cultura&Società dei quotidiani il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia, il Corriere delle Alpi.