Sembra che in montagna la battaglia finale, anche a causa del Covid-19, dei confinamenti, delle restrizioni, delle difficoltà economiche si combatta tra i sostenitori degli impianti sciistici e i difensori di “un’altra montagna”: credo che questo dibattito imposti le riflessioni e le scelte politiche dei prossimi decenni.
L’industria della neve, chiamata anche monocoltura dello sci e che esiste grossomodo da un secolo, è facile da capire: investimenti, impianti di risalita, piste, gioco sportivo. Si intuiscono subito gli interessi, sono circoscritti a un periodo breve e intenso, legati a una stagionalità precisa. Per “l’altra montagna”, l’area d’indagine è più vasta e si va dallo sci da fondo alle ciaspole, dallo sci d’alpinismo allo slittino. Questo per quanto riguarda la stagione invernale, mentre in primavera, estate, autunno c’è un fiorire di attività sui sentieri, nei borghi, nel laghi, lungo i torrenti, sui pascoli, nei boschi e poi su vette, ghiaioni, cenge: podismo, arrampicata, escursionismo, trekking. E il vasto mondo della bicicletta in tutte le sue forme che è in grande espansione, oppure il semplice e primordiale camminare: per quando riguarda la nostra specie è un’attività che si pratica da centomila anni.
Passo Sief dal castello di Andraz, Livinallongo, Belluno
Entrambi gli schieramenti hanno a cuore la montagna e sono titolati a manifestare il proprio punto di vista, la propria competenza, necessità, urgenza. Ipotizzando che i due fronti si raccolgano intorno ad altrettante bandiere, possiamo provare a semplificare: economia contro ambiente. Anzi, meglio: economia contro ambientalismo. Se vogliamo usare paroloni: libertà d’impresa contro la libertà nella natura. Ma forse la questione non è un semplice dualismo manicheo, o bianco o nero, in montagna, come in altre aree del vivere umano, regna la complessità.
L’altra montagna, con franchezza
Devo dire subito che io sto con la gente “dell’altra montagna”.
Forse perché ho degli amici che stimo e che la pensano così, e si sa, stando tra persone con sensibilità simili ci si rafforza a vicenda. E quindi sto con il Club di Roma, la Convenzione delle Alpi, l’Accordo di Parigi, perfino con Greta, con i cervi, con i lupi, con tutto quanto, stelle alpine comprese. Sto con “l’altra montagna” anche per un fatto interstellare: il nostro globo terracqueo è perso nell’immensità della galassia, e quindi m’immagino che un modello di sviluppo il cui dogma centrale prevede una crescita infinita in un ecosistema finito, non possa reggere per sempre: perché questa è l’acqua, questa l’aria, questa la terra. I cambiamenti climatici che constatiamo certificano questa divergenza tra contenitore (il pianeta) e il contenuto (il modello di sviluppo). Però ci dobbiamo dire una cosa con franchezza: l’altra montagna, antagonista a quella dell’industria della neve, prevede anch’essa una precondizione per esistere, ed è quella di generare o attirare una ricchezza che provenga da qualche parte: agricoltura, industria, commercio, turismo, Stato.
Il lavoro e la natura
Sono nato e vivo in montagna, sono abbastanza vecchio da avere bene in mente una tradizione e una civiltà alpina che non temo di definire progressista, quando questa parola significa progresso umano e civile:
al posto di case con i pavimento di terra battuta si sono posate le pietre, poi il cemento e le piastrelle. E quindi strade, corrente elettrica, istruzione obbligatoria e gratuita, medico condotto, telefono, corriere di linea verso il capoluogo e verso l’ospedale civile. E allora vedo solo due cose grandi che svettano davanti a noi in montagna e su cui dobbiamo misurarci: il lavoro e la natura. Il lavoro è la poesia del fare, quella poiesis che è greca, certo, ma è anche di mio nonno che a febbraio preparava i pali delle viti e andava nella vigna al sole a žercàr la tèra, assaggiare la terra, capire se la vanga si piantava, se riusciva a far qualcosa anticipando la primavera che sarebbe venuta.
Conca d'Alpago dal Monte Dolada, Belluno
La montagna con la gente dentro, che ci vive tutto l’anno, è essenzialmente un “grande fare” che attende anche il turismo sostenibile, la lentezza dell’andare, la quiete dello stare nelle terre alte, ma prima, durante e dopo ci deve essere il lavoro, questa unità di misura (forse l’unica) che ci rende una società avanzata dopo essere stati raccoglitori, divoratori di carogne, cacciatori, allevatori, coltivatori.
E per questo in montagna, oggi, ci devono stare l’industria leggera, l’artigianato, il commercio, i servizi, la coltivazione della terra, il pascolo, l’allevamento. Se quindi usiamo come unità di misura il lavoro, la capacità di generare beni e ricchezza, capiamo subito i termini della questione: gli impianti di risalita sulla neve, così come l’ospitalità diffusa sono dentro la stessa domanda, con quale e quanto sostegno pubblico e investimento privato si può innescare un processo virtuoso che crei occupazione e vita stabile in quota oggi e nel futuro? Da piccolo mi hanno insegnato a “fare economia” e non era speculare, imbrogliare, portare soldi nei paradisi fiscali ma significava lavorare e risparmiare, avere un bene, farne buon uso e tenere qualcosa per dopo, per “un domani”. E sappiamo che domani farà più caldo e proteggere l’industria della neve costerà sempre di più. Più di un sentiero, più di una ciclabile, più dell’ospitalità diffusa.
L’ambientalismo, una specie d’economia
E la montagna con le persone che vi abitano stabilmente può accogliere i turisti, i forèsti, che possono diventare i paesani che salgono a portare qualcosa che è innamoramento, desiderio, cultura, perfino esperienza metropolitana.
L’invito è alla politica, certo, ma anche alle persone che hanno una qualche ricchezza, un risparmio, una disponibilità, un vigore del corpo o della mente perché in montagna ci sono case che vogliono famiglie, paesi che vogliono persone, comunità che conservano le sementi della vita collettiva e hanno bisogno di energia giovane e civile. È necessario dar valore urgente all’altra montagna, ristrutturare abitazioni, investire in attività d’accoglienza, far lavorare gli artigiani, i negozianti, consumare i prodotti locali ed essere disposti a pagarli anche un po’ di più. I veri amanti dell’altra montagna sono già generosi e attenti, va detto. Ma tutti gli altri? L’esercito di persone dedite al mordi e fuggi a bordo di migliaia di automobili, in colonne interminabili lungo le vallate alpine dirette in massa al singolo posto gettonato, al laghetto color verde smeraldo, alla cittadina di vetrine colorate? Anche costoro sono chiamati a generare un’economia, o almeno ad aver cura della montagna che attraversano quasi senza accorgersene.
Località Degnona, Chies d'Alpago, Belluno
Se ci fosse questo rispetto per tutte le terre alte ecco che i vecchi e i nuovi abitanti della montagna vedrebbero nel loro futuro un’economia che non è solo l’industria della neve, ma anche convenienza a investire nei paesi, nelle tradizioni di accoglienza, nel gusto culinario, nella cura del territorio. E quindi l’ambientalismo che educa alla conservazione della ricchezza della natura e della biodiversità, qualcosa di cui non sappiamo ancora il valore, la forza, il potere di raccogliere e conservare il destino del mondo, può essere un’economia, un risparmio, un fare.
L'articolo "Sciolta la neve, resta la montagna, le terre alte chiedono rispetto" è stato pubblicato il 18.03.21 sulla pagina Cultura&Società dei quotidiani il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia, il Corriere delle Alpi.Una buona azione per il futuro che conserva i beni veri come l’acqua, la terra, l’aria. E ci sarà onore per chi ha lavorato, chi ha dato, chi ha portato i due soldi, puliti e onesti, che rendono le persone generose tra loro e generose verso il futuro.