Da pochi mesi è stato rimosso il Magic Bus in Alaska, dove 28 anni fa il giovane Christopher Johnson McCandless ha sigillato con la morte il suo sogno di libertà.
Into the Wild, oltre a essere il titolo di un libro e di un film, è diventato in questi anni un simbolo, un riferimento, qualcosa di importante per molti. Quel ragazzo, nato nel 1968, era un mio coetaneo e oggi sarebbe un uomo di 52 anni, magari professore o eterno nomade del mondo, chissà. Io oggi non lo posso pensare che come figlio. E penso al tipo di libertà che ci ha mostrato, anche quassù in montagna.
Era il settembre del 1992 quando il corpo del ventiquattrenne Chris McCandless veniva ritrovato nei pressi del vecchio autobus, che gli fungeva da riparo, nella terra selvaggia del parco nazionale di Denali in Alaska. Lo scorso giugno il bus è stato sollevato da un grande elicottero e portato via su decisione delle autorità perché considerato pericoloso per l’incolumità di persone, fan, escursionisti che volevano “vedere” il luogo che aveva reso iconica la vita di un ragazzo, il suo sogno, la sua ricerca interiore.
Il Magic Bus in Alaska, prima della rimozione
In tre decenni sono successe tante cose che hanno trasceso la vita privata di Chris
portandolo a essere il simbolo di una ribellione pacifica, di una contestazione radicale, di un’avventura ancora possibile alla ricerca di una vita più giusta a contatto con la natura. Chris non lo saprà mai, ma la sua morte ha coinciso con una specie d’immortalità: è il 1993 quando l’alpinista e saggista Jon Krakauer rende popolare la vicenda con l’articolo Death of an Innocent cui seguirà nel 1996 il suo famoso libro Into the Wild. Poi nel 2007 Sean Penn ne trarrà il celebre film che porta lo stesso titolo e sempre in quell’anno uscirà il documentario di Ron Lamothe dal titolo The Call of the Wild. Nel 2014 la sorella di Chris, Carine McCandless, pubblicherà il libro dal titolo Into the Wild Truth.
Ed è così che una giovane vita spezzata diventa gesto emblematico, oggetto di culto e perfino moda. E questo non è dovuto tanto agli approfittatori che speculano sulla tragica fine di un ragazzo sensibile e visionario, ma per il fatto che le sue scelte, le foto, il diario, le testimonianze e perfino l’epilogo ci hanno posto una grande domanda che era nell’aria, in Occidente, da molto tempo: c’è ancora, da qualche parte, una libertà cui guardare? Ma allontaniamoci dall’America e torniamo alla vecchia Europa e andiamo in montagna, che nel nostro continente può essere ancora quel mondo selvatico che esercita un richiamo. Intanto Krakauer, prima di essere l’autore del celebre articolo che ha fatto conoscere la storia di Chris, era alpinista, viaggiatore, scrittore di queste esperienze lontane dalla postmodernità urbana. Bene. Perché è proprio della montagna intesa come solitarismo che dobbiamo parlare.
Ecco un episodio che mi è accaduto qualche settimana fa in una zona industriale in provincia di Belluno, all’ombra delle Dolomiti, dove vivo e lavoro. Era mattina presto e stavamo scaricando un macchinario del peso di 40 quintali: camion con gru, piazzale di fabbrica lungo il Piave, montagne intorno. L’autista del mezzo, un uomo pratico del mestiere, che aveva superato i cinquant’anni, era partito col buio quella stessa mattina da Padova, ci siamo presentati e siamo saliti sul pianale del camion e abbiamo agganciato la macchina con i golfari e le fasce e l’uomo ha cominciato a manovrare la gru con cautela, mano ferma e occhio esperto. Quando la possente macchina era in sicurezza e posata a terra ci siamo un po’ rilassati: la fase più pericolosa dell’attività era finita. L’uomo si è sistemato la camicia dentro i pantaloni e si è guardato intorno: un bel sole illuminava la cima della montagna di fronte a noi e se ne è uscito con questa frase: “Mi piacerebbe essere là in cima, fuori dal mondo e senza nessuno che rompe!”. Abbiamo riso di gusto: era proprio un tipo simpatico oltre che un ottimo manovratore. Poi la giornata è passata come tante altre al lavoro. Però quel desiderio di montagna, solitudine, libertà, quella velata invidia nei nostri confronti, che viviamo vicini a tanta bellezza, mi ha fatto riflettere: quand’è esattamente che il solitarismo è diventato una visione del mondo, una specie di ultimo paradiso in terra? Una nuova di libertà selvatica?
Casera Pian de la pita, Alpago, Belluno
Proviamo a riflettere su due situazioni, due posti in cui possiamo vivere o immaginare di vivere:
da una parte i luoghi affollati del lavoro, dell’acquisto, del consumo, dello spostamento che diventano rumorosi, faticosi, appiccicosi, stressanti e perfino pericolosi (pensiamo al Covid-19 e a come, con il distanziamento sanitario, abbiamo sospeso le nostre abitudini affettive e di relazione); e dall’altra foto, video, copertine di riviste, trasmissioni tivù e web che mostrano panorami mozzafiato, natura incontaminata, rocce rosate al tramonto. Questo estetismo patinato, poco naturale e molto social, molto selfie non è un male assoluto, non è che debba essere vietato: il problema è che prende quasi tutto lo spazio e occupa totalmente l’immaginario della montagna. E conquista anche il bravo autista, che magari da ragazzino era felice di andare con i genitori al mare, fare i castelli di sabbia, sguazzare nell’acqua bassa, mangiare il gelato nelle affollate spiagge d’Italia insieme a nugoli di bambini figli del baby boom e adesso invece sogna il cocuzzolo della montagna, di più, sente di averne diritto, come fosse una specie di libertà da conquistare. Pare possibile? Sì, è accaduto, allora bisogna dire una cosa semplice, e ripeterla se necessario: vivere in montagna, proprio in virtù della difficoltà dell’abitare, dell’essere in balia di eventi atmosferici improvvisi che si abbattono sulla terra ripida, in considerazione delle poche e precarie vie di comunicazione, di un’economia di sussistenza che ha sempre avuto bisogno di emigrazione e rimesse, di uomini, donne, ragazzini e ragazzine che hanno dedicato tutta la loro vita al lavoro, al podere, alla stalla, alla casa è sempre stata villaggio, borgo, pugno di case: persone insieme in un luogo. Oppure pensiamo a un’altra montagna piuttosto affollata, quella dei conflitti mondiali. La Grande Guerra, un dispiegamento di uomini, mezzi e tecnologie mai visti in quota e una moltitudine di giovani in attesa o all’assalto; e poi la Seconda Guerra e la Resistenza dove, dal ’43 al ’45, la montagna è stata baluardo, rifugio, luogo di progettazione e rinascita del Paese: davvero possiamo pensare la montagna essenzialmente come un luogo in cui stare per i fatti nostri?
Rifugio Croda da Lago-Palmieri, Cortina d’Ampezzo, Belluno. Il rifugio Palmieri è dedicato a Giovanni Palmieri studente di medicina, partigiano, medaglia d’oro al valor militare e medico honoris causa. Nel settembre del 1944, nel corso di un combattimento sull'Appennino tosco-emiliano, rifiutò di ritirarsi con il gruppo per restare accanto ai partigiani feriti nella casa colonica in cui erano assediati. Catturato dai tedeschi fu torturato e ucciso. Aveva 23 anni.
Oggi la montagna è importante,
conserva una natura che è biodiversità, prospetta un clima più temperato delle afose piane, e poi spazi aperti, acqua: le vere ricchezze di ogni futuro possibile sul pianeta. E c’è un’altra cosa che resiste, uno stare insieme che forse è stato smarrito nel condominio, nel quartiere, nelle periferie cittadine: l’aspetto comunitario di un luogo che ci insegna che siamo noi a dover cambiare, adattarci, rispettare, lavorare; non cercare il paradiso in ogni angolo incontaminato del mondo, ma provare a fabbricarlo intorno a noi. Anche perché non abbiamo più grandi praterie da conquistare, nessuna nuova frontiera selvaggia da colonizzare. Ed è meglio se abbiamo cura di quegli scampoli di natura incontaminata e civiltà che resistono in quota.
Facciamoci pure una foto in vetta, sul pascolo, sul sentiero: è bello condividere un’emozione, ma dobbiamo essere sinceri, non può essere l’essenza della montagna, ma una immagine tra le tante. E soprattutto se parliamo o pensiamo la libertà consideriamola con serietà come la dimensione essenziale per tutte le donne e tutti gli uomini che non può essere mai ridotta a vuoto e compiaciuto solitarismo.
Dicono che Chris volesse tornare, ma l’impeto del fiume glielo abbia impedito: chissà cosa avrebbe detto di sé, della sua esperienza di nomade, magari qualcosa che non collima con una narrazione trentennale che ha fatto indossare a molti un’ampia camicia a quadri. E pensando a lui, al suo essere figlio davanti al fiume impetuoso del disgelo, vedo un altro fiume: è potente, vorticoso, sporco di una crisi duratura che ci lascia smarriti e soli. Credo che oggi non sia più il tempo di ammirare la libertà del solitarismo ma di guardare alle possibili comunità al di là o al di qua del fiume.
L'articolo, con il titolo "A bordo del Magic Bus", è stato pubblicato il 26.09.20 sulla rivista online “Doppiozero”